Dalle pievi della Lunigiana ai castelli persi fra le onde delle colline senesi: percorrere il territorio della Toscana camminando significa spesso vivere il privilegio di ammirare luoghi inaccessibili (o quasi) alle auto, dove le testimonianze e le memorie di un passato, anche remotissimo, sono più che mai vive e presenti.
Eccovi qualche dritta per scoprire paesaggi e monumenti spesso fuori dai tradizionali circuiti del turismo, ma che hanno tante storie curiose e affascinanti da raccontare.
Cercando fra i santi del calendario il nome di Viviano non lo troverete. Ma chiedendo alla gente dei paesi di Vagli Sotto e Vagli Sopra, in provincia di Lucca, nessuno avrà dubbi: Viviano è e sempre sarà il santo protettore dei cavatori e la casa dove visse e compì miracoli strabilianti è lì, scavata nella roccia viva a strapiombo sopra il Fosso della Tambura.
Oggi, come tanti secoli fa, non ci sono strade che arrivano all’antico eremo: per inerpicarsi fin lassù occorre faticare sul sentiero che sale da Campocatino. Ad ammonimento di quanti non credono finché non vedono, incontrerete lungo il cammino i segni delle gesta miracolose di Viviano: l’impronta della mano e del piede, impresse su una pietra di marmo, la triplice fonte che zampilla dai buchi che egli fece forando la roccia con le dita come fosse burro, e i cavoli selvatici che crescono solo qui e che la provvidenza fece germogliare per sfamare il sant’uomo.
Se non credete alla “leggenda” dei gioielli d’arte nascosti fra le pieghe della cosiddetta Italia minore, questa è l’escursione che fa per voi. C’è una piccola nella frazione Galatrona, persa nelle campagna del comune aretino di Bucine, che sembra messa lì apposta per dissolvere i dubbi degli increduli. La veste esteriore non è sontuosa e poco racconta del prestigio che la Pieve di San Giovanni godette nei secoli passati. L’interno, però raccoglie tre capolavori in terracotta invetriata, opera di Giovanni della Robbia: ammirevoli sono il ciborio bianco e l’edicola con l’immagine del santo, ma la fonte battesimale a pianta esagonale lascia davvero a bocca aperta!
Se poi alle meraviglie dell’arte volete sposare quelle della natura non vi reste che incamminarvi lungo i sentieri che conducono fino alla Torre di Galatrona, antica sentinella posta in un posizione oggi ambita dagli amanti dei bei panorami e un tempo aspramente contesa fra i signori di Arezzo e quelli di Firenze.
Non è una vera e propria escursione quella che occorre fare per raggiungere i ruderi dell’antico monastero di San Salvatore a Giugnano, in provincia di Grosseto. Sono poco meno di 150 metri in linea d’aria dalla strada, ma, quando ci si arriva, sembra di aver attraversato i continenti e le ere.
Il monastero a dir la verità non c’è… il tempo impietoso lo ha spazzato via e le chiome degli alberi stanno al posto delle navate e delle vele che furono orgoglio dei monaci benedettini dell’XI secolo, poi dei cistercensi e infine degli agostiniani. In mezzo al pavimento verde del bosco, però, si apre ancora l’accesso alla cripta, interrata per tre metri e divisa in tre navate da quattro colonne. Una struttura di grande bellezza e pregio artistico, che, paradossalmente, lo stato di abbandono contribuisce a rendere ancor più affascinante e quasi surreale.
Con il suo antico monastero, il grande prato ideale per i picnic e la rete dei sentieri tutta attorno, Vallombrosa rappresenta una meta classica per le gite fuori porta dei fiorentini.
L’importanza di questa zona verde, oggi tutelata come Riserva Statale, va però ben oltre lo svago.
In un certo senso è da qui che ha le sue fondamenta la magnificenza di una delle più belle città d’Italia.
Non avremmo, infatti, la solida imponenza di Palazzo Vecchio, l’aerea eleganza del Campanile di Giotto o i geniali equilibri della Cupola del Brunelleschi, senza gli umili abeti cresciuti nel silenzio delle foreste di Vallombrosa.
I fusti dritti, elastici e resistenti di questi alberi furono, infatti, la materia prima dei ponteggi utilizzati per la costruzione e il restauro dei palazzi fiorentini e fecero la fortuna dell’abbazia situata a una trentina di chilometri dalla città, nei cui possedimenti ricadevano le ampie aree boschive delle quali monaci gestivano il taglio e il commercio.
Un bastione di roccia dall’alto del quale parrebbe quasi di poter scrutare tutto il Mediterraneo, dal Bosforo a Gibilterra, o quantomeno di abbracciare con lo sguardo quanto basta del Mar Tirreno per poter controllare i movimenti di amici e nemici sulle rotte che conducono ai porti della Toscana.
Questo è il Poggio Volterraio, sentinella dell’Isola d’Elba ai cui 394 metri di altitudine si accede solo con la fatica dei muscoli e il sudore della fronte.
Qui sorge il castello omonimo, oggi abbandonato, che per secoli è stato pietra d’angolo nel sistema di fortificazioni che faceva capo a Porto Ferraio ed è scuramente la più antica roccaforte di tutta l’isola. Risalgono all’anno Mille, infatti, le pietre più antiche oggi ancora in piedi, ma fra la polvere millenaria del Poggio è stata ritrovata una moneta bronzea di Volterra risalente al IV o III secolo a.C., segno che probabilmente già gli Etruschi installarono qui un nido d’aquila a protezione dei loro possedimenti.
È storia di “genti meccaniche” quella che si incontra ad ogni passo lungo la valle che da Carrara sale al borgo di Colonnata e da lì ai picchi apuani.
Qui le escursioni sono un continuo altalenare fra angoli di grandiosa natura incontaminata e bianchi crateri che raccontano storie di eterna fatica e coraggio.
Se davvero volete camminare toccando lo spirito più autentico di questa terra, prima di andare verso le montagne fate un passo nella sua tradizione di cave e scalpellini, visitando la Cava Museo nella località Fantiscritti. Poi concedetevi un giro a zonzo fra i vicoli di Colonnata e magari anche il lusso di assaggiare quel lardo che oggi fa bella figura sulle tavole dei buongustai, ma che per secoli è stato il “pane” povero e nutriente di cavatori e anarchici alla macchia.
Un nome poco romantico, antiche pietre sbrecciate e una vista spettacolare, alla quale si arriva per stradette malagevoli o, con più soddisfazione, percorrendo i sentieri che salgono attraverso le campagne dei paesini che stanno ai piedi del monte.
Oggi la Rocca della Verruca a Calci è “solo” questo, almeno per il turista ignaro di storia. Ma per i pisani quella fortezza è un simbolo supremo dell’orgoglio cittadino.
Per quell’altura, che domina sulla valle dell’Arno e quasi si affaccia sui tetti della città, sono passate gran parte delle vicende legate alle fortune della repubblica marinara toscana… e alla sua caduta.
Ai piedi della fortezza inespugnabile più volte nei secoli dovettero arrestarsi le armate dei nemici e nel 1403, con la città già in mano agli eterni rivali (gli odiati Fiorentini, che comprarono con moneta sonante la vittoria che non furono in grado di guadagnarsi con le armi), lì si ritirarono gli ultimi difensori, per l’estrema quanto inutile resistenza.
Giù dall’Abetone fino alla confluenza con il Serchio, il torrente Lima si è scavato la strada incidendo, fra le alture d’Appennino pistoiese, gole così profonde da diventare confini naturali. Il passaggio dall’una all’altra sponda del fiume è divenuta una sfida che nei secoli ha ingaggiato l’ingegno e il coraggio di architetti e capomastri.
Lo si può ben vedere percorrendo i sentieri e le strade che costeggiano il torrente fra Piteglio e San Marcello, dove, nel giro di una manciata di chilometri, si valica la Lima per ben due volte, prima sullo splendido ponte gobbo di pietra, fatto edificare da Castruccio Castracani nei primi anni del XIV secolo, poi sullo spettacolare ponte pedonale sospeso, opera realizzata negli Anni ’20 del Novecento, per consentire agli operai di Piteglio di recarsi al lavoro presso le fabbriche situate sull’opposta riva del torrente. L’opera ha una campata unica di 227 metri, un’altezza di quasi 40; fino al 1990 è stato il più lungo ponte pedonale sospeso del mondo, record poi superato dal Kokonoe Yume Bridge in Giappone.
Non sono solo opere d’arte e antiche architetture a ricordare i passaggi della storia. A Valibona, una frazione del comune di Calenzano, a pochi chilometri da Prato, è un memoriale, posto presso il piccolo agglomerato di case ormai abbandonate, a testimoniare che lì, il 3 gennaio 1944, avvenne lo scontro che segnò l’inizio della lotta di resistenza in Toscana.
La battaglia vide fronteggiarsi la brigata partigiana dei “Lupi neri” e reparti repubblicani di Prato, la milizia volontaria Ettore Muti, i fascisti ed i carabinieri dei comuni limitrofi.
Non ci sono strade che giungono alla frazione e per arrivarci bisogna percorrere l’itinerario escursionistico che porta il simbolico nome di “Sentiero della Pace” e risale le pendici del Monte Maggiore, oggi per fortuna divenute un luogo dove regnano bellezza e tranquillità.
Ci voleva proprio lo spirito sarcastico dei toscani per appiccicare un toponimo così sulla carta geografica!
Eppure quando vi immergerete fra i boschi della Riserva Naturale dell’Alto Merse, camminando sui sentieri e sulle sterrate che portano fino al castello, non vi sarà difficile comprendere il perché l’antico maniero, edificato dai nobili Balzetti e poi appartenuti alla famiglia dei Saracini, sia comunemente conosciuto con il curioso nome di Castiglion Che Dio sol Sa.
I documenti scritti sono carenti di notizie sulle vicende legate alle origini del castello. Sì sa soltanto che la fortezza già dal 1200 era sotto la giurisdizione senese. Ne è dimostrazione una “multa” appioppata dall’amministrazione comunale ai signori del luogo, per non aver inviato i fanti richiesti a rinforzo dell’esercito.
Poco altro si sa delle vicende di questa rocca, pur tanto imponente e munita, dispersa nel verde della campagna toscana. Forse è meglio così: a ciascuno l’onere e l’onore di sognare le storie d’arme, di dame e cavalieri trascorse dietro le mura del Castiglion che Dio Sol Sa...